I miei alberi

Non conosco bene la Montagna, sono nato a Roma ma ho vissuto in provincia tutta la vita abitando una casa in campagna ad un piano soltanto. L’altitudine quindi non è una cosa a cui sono abituato, decisamente. Quando mio fratello si trasferì in una piccola palazzina, ricordo che pranzare in balcone era per me quasi fastidioso, ho sempre percepito come naturale l’avere i piedi all’altezza del terreno. Forse è proprio per questa paura che sono sempre stato attratto dalla Montagna, sfidato da me stesso ad esplorare luoghi distanti, paesaggi ai quali non sono abituato ma soprattutto “luoghi più in alto”. Ho sempre creduto che potessero in un certo qual modo rappresentare un “accesso”, come se “varcando la soglia” della Montagna si entrasse in un luogo in cui il tuo valore è misurato secondo un’altra scala e secondo altri parametri. Chi sei in montagna lo stabilisce la tua voglia di resistervi perché è Lei a lasciare che tu la conosca oppure Lei ad impedire di farsi vedere. In alto ci sei soltanto tu, nel senso più profondo ed intimo del termine. Hai lasciato “giù in basso” una serie di pesi coi quali credevi d’esser salito… ed invece ti ritrovi leggero e libero a guardare tutto da un’altra prospettiva.
La Montagna mi ha ricordato che sono vivo, nel silenzio di tomba che contraddistingue certe nebbiose giornate di fine autunno sono riuscito a sentire prima il mio respiro e poi il battito del mio cuore. Ho capito che ero vivo non perché il mio calendario elettronico mi ricordasse mille impegni, non perché la mia mail mi notificasse nuovi messaggi da leggere ma perché avevo il fiato corto e sudavo sotto il peso dell’attrezzatura fotografica. Tutto, dopo soltanto pochi passi, assumeva una dimensione più umana. Tutto, stante fossi a poche decine di chilometri da casa, era tornato ad avere il suo significato originale. E’ questo lo spirito con cui mi rifugiavo sui Simbruini, cercavo l’aspetto vero e rude dell’esistenza, trovavo la mia dose di selvaggio a meno di un’ora di auto da casa e ne ero immensamente felice. Ho percorso molti sentieri quasi sempre da solo e quasi sempre senza scattare neanche un’immagine: avevo capito quello che dentro di me si smuoveva ed avevo capito perché la Montagna mi facesse bene mentre ancora non mi era chiaro il perché ero attratto in senso estetico da quei luoghi. C’era qualcosa che mi piaceva ma ancora non capivo cosa fosse.

22.000 ettari del Parco Regionale dei Simbruini sono occupati da boschi e la formazione più estesa è la faggeta che vegeta dai 900 ai 1900 metri. Ovviamente quasi tutte le mie camminate si svolgevano proprio in questi boschi e senza accorgermene mi ero innamorato di quella silenziosa compagnia. Ero visivamente stimolato da un disordine apparente che in realtà ai miei occhi diventava rigorosa ed ordinata composizione. Le immagini erano lì, nascoste tra i rami e sapevo di poterle trovare escludendo ciò che “disturbava”, come uno scultore cercavo di dar forma a qualcosa di grezzo e non ancora compiuto.

I faggi sono i miei alberi. Per loro natura, crescendo in altezza ed espandendo i loro rami, creano volte boschive verdi, ombrose e fresche. Sotto le loro fronde crescono poche erbe, per questo che i faggi dominano queste montagne. Si espandono così vicini tra loro che le altre piante difficilmente riescono a crescervi accanto. Solo qualche arbusto riesce a fiorire prima che il fogliame del faggio si chiuda sopra di esso. Il faggio quindi, forte e prepotente, si isola da ciò che lo circonda individualizzandosi. Il suo legno è pesante e resistente ed ha un tronco simile alla zampa di un elefante, possiede tutte le capacità di crescere solo ma ha bisogno dei suoi fratelli, della sua foresta. La moltitudine lo aiuta d’inverno a non temere il gelo e d’estate ad essere protetto dalla luce diretta del sole poiché la sua corteccia glabra non lo protegge abbastanza dalle radiazioni.

Il faggio è stato grande maestro e più volte sono tornato ad assistere alle sue lezioni. Negli alti palazzi della mia città con davanti altri palazzi pieni di gente, nelle stridenti strade di questa megalopoli che somiglia ad un sabba infernale mi sono sentito quasi sempre da solo; per avere la consapevolezza di essere parte di un tutto, un tutto molto più grande di queste immense distese di cemento armato, ho dovuto confrontarmi coi faggi… e mi sono sentito come loro.
Passava la rabbia, passava la frustrazione per una vita che ha ritmi decisi da qualcun altro e nelle faggete di montagna venivo assaltato da una forza dirompente, un sentimento a cui non ero più abituato da lunghi anni: la pace.